Il tesoro de la Porta
Capitolo 3 - A caccia di sogni
"Miseria boia!" imprecò il vecchio, inciampando su una pietra falsa, della malandata scaletta, che collegava un terrazzamento di quelli che restavano tra due muri “a secco”; era nella parte più bassa della sua piccola proprietà. Amava quel luogo; pensava che se ci fosse stato mai un Paradiso, dopo, a lui sarebbe bastato avere il permesso di restare là, tra le pietre chiare di calcare, nel dedalo di antichi muretti; tra gli olivi nodosi e gli odorosi fiori dell’arancio.
Ogni muretto delimitava una terrazza di terreno; spesso partiva da uno strapiombo scosceso e si fermava a quello successivo. Guardando dalla valle non era facile distinguere l'intervento dell'uomo dalla mano di Dio. La macchia mediterranea, scura e possente, abbarbicata a chiazze decise e forti tra le rocce, mescolava con pennellate possenti il vecchio col nuovo: il preistorico con l'età della pietra; la mano dei Greci con il laterizio e il reticulatum dei Romani, fino ad arrivare alla lunga parentesi di una civiltà feudale che, nonostante si fosse ora nel terzo millennio, tardava a scomparire dalla mentalità retrograda dei leccapreti.
Poggiato il bastone, l’uomo accese per l'ennesima volta il suo mozzicone di Toscano. La montagna, pian piano, riprendeva il suo aspetto originario. I terrazzamenti caratteristici della Costiera, le cosiddette “scale degli Dei”, andavano scomparendo, sommerse da un mare di vegetazione incolta e selvatica.
"La crisi," disse tra sé "altro che crisi: è la voglia di lavorare che manca. Tutti oggi vogliono “un posto”, non il lavoro." E pensare che pochi metri di quella terra difficile ma prolifica, lavorata per secoli a sangue e sudore, aveva sfamato intere borgate.
- Qualche volta mi rompo il femore, qua! – disse ad alta voce, mentre osservava la vasta tenuta che confinava con la sua proprietà. La reticella metallica che divideva i due terreni era vecchia e ridotta male; nessuno mai, dall’Albergo, si sognava di spingersi tra i rovi, nel sottobosco. Nonostante questo, il vecchio non si sarebbe mai permesso di infilarsi nel terreno dei vicini senza essere autorizzato. Ma lui era quasi certo che la signora Segovia, quella deliziosa spagnola che faceva da Direttore e da P. R. della struttura non gli avrebbe negato l’accesso, per qualche innocua passeggiata nel vasto parco.
Dai sogni e dalla sua testardaggine aveva tratto la conclusione che la grotta, in cui era stata rinchiusa la povera ragazza mille anni prima, doveva corrispondere alla zona in cui giaceva una vecchia cantina in disuso, troppo lontana dal cuore dell’Resort per ritornare utile.
Questo, naturalmente, se mai erano esistiti: una grotta murata; un principe malvagio e una giovane popolana, tanto bella quanto sventurata, di nome Sabella.
Una cosa era certa: fosse anche l’ultima azione della sua vita, Tonio era deciso ad andare avanti. Il ricordo di ciò che aveva visto e udito nei suoi vaneggiamenti tra sogno, realtà e follia, era troppo amaro, troppo crudele, per essere cancellato per sempre.
Andò con la mente a quei giorni del passato; pensò alle famiglie dei due sventurati... avevano saputo? Oppure erano rimasti per anni, annichiliti dall’incertezza e schiavi del dolore? La vendetta del giovane Califfo superbo si era esaurita, oppure aveva continuato a infierire su quella povera gente?
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