Il tesoro de la Porta
Capitolo 4 - Viaggio nella notte oscura
Penisola Sorrentina, 1578
Tranne che per la zona centrale della strana sala ipogea, il resto dell’enorme ambiente alchemico era completamente buio. Il giovane Cosimo, però, non temeva quel buio fitto e totale, anzi, lo affascinava; si sentiva superiore a queste piccolezze, si sentiva uno scienziato, o quasi. Collaborare col padrone in quegli esperimenti arditi e pericolosi, lo faceva sentire un cospiratore. Per fortuna, il giovane, non brutto ma però nemmeno troppo alto e tendenzialmente sovrappeso, era anche abbastanza sveglio da non rivelare niente della sua vita segreta. Per tutti, compreso la sua famiglia e i suoi amici, era un semplice servitore particolarmente devoto al suo padrone, lo scienziato de la Porta, che lo ripagava di tanta devozione permettendogli una vita meno faticosa e chiudendo un occhio sui suoi attacchi di perniciosa pigrizia.
Lo scienziato ben sapeva dove Cosimo passava molte delle sue notti; il giovane non aveva la sua tempra, né era trascinato con la stessa veemenza, dal “demone”: quello che rendeva lui stesso insonne, per la sete di sapere e per la curiosità mai sopita.
La prima parte del lavoro del giovane (ed era spesso la più faticosa) consisteva nel trasportare quel certo baldacchino in legno, congegnato dallo stesso filosofo. Era un cassone strano, corredato di due cinghie per essere portato a spalla da un uomo di robusta costituzione. Una volta arrivato a destinazione, con manovre segrete, alla cassa spuntavano quattro piedi robusti ed essa, aprendosi, si trasformava in un tavolo da alchimista, con tanto di attrezzature, cassetti, storte e recipienti opachi, che contenevano strane misture. Negli ultimi tempi le spalle di Cosimo dolevano più del solito, visto che Giambattista de la Porta si era incaponito nello studio e nella comparazione di certi metalli pesanti. Ma non era il peso a preoccupare di più il povero apprendista: il suo vero terrore era che al suo padrone mancasse un ingrediente o che si fosse scordato un alambicco. Nel buio pesto, spesso senza poter usare neppure la piccola lampada a olio, doveva percorrere da solo a ritroso, tutte le grotte e i corridoi che collegavano lo studio segreto, con le sale tradizionali della bella dimora, quelle dove lo scienziato “fingeva” di occuparsi di studi più tradizionali e banali, con la vasta biblioteca e infine con la Serra, che confinava sul giardino, zeppa di piante officinali e aromatiche, e spesso perniciose.
La parte del cammino sotterraneo che più terrorizzava Cosimo era l'attraversamento della “villa di Orfeo”. Probabilmente non si trattava della vecchia camera di una vera villa Romana, come affermava il suo padrone, forse era solo una grotta particolarmente antica.
Sapeva che una squadra di carpentieri, era arrivata, anni prima, dalla terra di Scozia dalla zona del san Michele, e poi, a lavoro terminato, erano stati fatti ripartire in tutta fretta, con l’ordine di scordarsi per sempre di quelle opere strane compiute nel sud dell’Italia. Nel loro paese di origine, esistevano molti gruppi di “Fratelli”: quelli non obbedivano alla Chiesa e non riconoscevano il dominio del Papa, sia sui viventi che sulle anime.
Gli operai avevano seguito alla lettera le indicazioni di Giambattista, creando anfratti, corridoi e passaggi segreti; diretti dai progetti dallo scienziato che, misteriosamente, sembrava conoscere, o riconoscere, vani e cavità celate nel sottosuolo della tenuta di famiglia. Alla fine del percorso, si giungeva al laboratorio segreto, che segreto poi non era. E qui stava l’inganno: in realtà, la strana struttura, sembrava soltanto il fondo di un pozzo; partiva dal basso, trenta metri sotto terra, con una stanza a pianta quadrangolare che, senza tetto, si spingeva verso l’alto, rimpicciolendo impercettibilmente come una piramide. Un pozzo che però era secco, aveva la “bocca” di pietra deliziosamente istoriata, abbelliva il centro della corte principale dell'ingresso e l'acqua non vi entrava mai.
La falsa cisterna, fascinosa e "segreta" quindi, per non destare sospetti all’occhio dei furbi e degli spioni, aveva pure un accesso, ingenuamente facile da intuire e da percorrere, sotto gli occhi di tutti... Chi per diletto, per curiosità, o anche per forza di legge, avesse voluto avventurarsi nel cunicolo angusto, scendendo una vecchia scala perigliosa alle spalle di una porta sprangata da anni, avrebbe trovato solo la sala, tanto arida quanto vuota. In realtà, il laboratorio segreto non era una “stanza” ma il passaggio invisibile, che arrivava alla stessa camera ma da un’altra via, celata da trucchi e marchingegni. Il laboratorio segreto era, quindi, proprio il baldacchino semovente stesso. Grazie alla fatica di Cosimo, esso poteva seguire il Cavaliere nella sala, e veniva adoperato solo nelle notti in cui eseguivano esperimenti nascosti. Esperimenti di cui l’Arcivescovo di Napoli ma, soprattutto, l’Inquisizione Santa, non dovevano sospettare cosa alcuna.
Ma, si sa bene: quando mai la Chiesa non sospetta del sapere? Anzi, per certo, teme la conoscenza più del Diavolo in persona.
Solo a Cosimo era dato di penetrare in quel luogo; il meccanismo che permetteva di aprire il varco per le grotte era occulto. Lo stesso giovine assistente non lo conosceva.
“E’ per lo bene tuo, figliolo!” diceva spesso il Magister, “Meno sai, meno pericoli corri!”
Quella notte il padrone era già nella sala, il tavolo smontabile era approntato; lo avevano lasciato così da tre giorni. Era la fine dell’autunno e per le stradine di campagna c’era ben poco movimento, tranne quello delle facce note. Gente del contado, che poco capiva delle operazioni “stregonesche” di de la Porta, anzi preferiva farsi i propri affari, vivendo nella paura del controllo Parrocchiale. Il curato, infatti, nonostante di facciata si presentasse servile e rispettoso, alle spalle, parlando di nascosto coi contadini, consigliava prudenza nei riguardi della potente Famiglia. Quel Signore che indagava sui fenomeni naturali, sfidava la Legge Ecclesiastica e poteva trovarsi, in qualsiasi momento, in odore di scomunica.
- Questi sono i veri misteri, ragazzo, altro che le ricerche insensate che devo presentare a sua Eminenza! – Cosimo, appena entrato, si fece più vicino per guardare meglio.
– Questa energia infinita, è invisibile, eppure tutto il Cosmo ne è permeato.
Cosi facendo, il Maestro, lasciò cadere un oggetto, davanti agli occhi attenti del ragazzone. Si trattava di una sfera di metallo, probabilmente ferro, visto il colore bruno. Il ferro doveva attraversare un cilindro di rame, assai spesso, circondato da una fitta rete di filamenti, sempre metallici, di colore più chiaro. Ora: il ferro era pur pesante, e sarebbe dovuto cadere istantaneamente sul pavimento della sala ma, come per magia, questo non avvenne. Il pezzo, appena prossimo al filo di rame, rallentò la sua corsa, fino a fluttuare, attraversando lento, lento, quasi fosse una bolla di sapone, tutto il canale del cilindro. La lenta discesa durò due o tre secondi, poi, una volta che il ferro ebbe oltrepassato il condotto, ritornò a sottostare alle forze conosciute, e cadde immediatamente per terra, con un rumore secco e sonoro.
Cosimo sapeva degli studi che stavano svolgendo sui misteri del magnetismo ma rimase lo stesso allibito, mentre de la Porta, incantato dal fenomeno, continuava a giocare con il tubo e il ferro magnetizzato.
- Ecco, osserva bene... anzi prova tu stesso, - disse il Maestro – non farlo uscire, prova a rimandare su, il magnete, e sappi che pesa oltre venti once.
L’allievo fece varie prove; assestando al metallo in uscita un piccolo scappellotto, esso tendeva a risalire lentamente attraverso quel cunicolo obbligato.
- Hai visto quanta delicatezza, pur essendo essi corpi bruti e pesanti? – disse ancora de la Porta. Magro, nell’ambiente oscuro, con la barba chiara, effettivamente il suo viso faceva una certa impressione ma gli occhi, occhi lucenti di febbre infantile, entusiasti della scoperta, trasmettevano tutta la sua gioia e l’incanto del suo animo di uomo di scienze.
- Adesso fa una prova, - lo invitò – anzi, ascolta ti do un Carlino d’oro... devi semplicemente fare in modo che il ferro e il cilindro dorato si tocchino. Prova!
Cosimo, provò, ma con riluttanza, sapeva perfettamente due cose: quando il Maestro lo sfidava era perché era già sicuro di avere vinto, e anche che il suo padrone era molto avaro e non avrebbe mai scucito nessuna ricompensa extra a lui, povero assistente; il “vecchio” amava ritenere che la fortuna avesse già baciato il povero contadinotto, innalzato, all’improvviso e senza merito, nell’Arcadia, l’Olimpo delle Scienze Templari. Scienze che, ahimè, arricchiscono lo spirito ma non la tasca!
Questo era il motto preferito dal Maestro, quando si avvicinava la fine della settimana, per cercare di convincere Cosimo a rinunciare persino ai pochi spiccioli che gli elemosinava.
E così iniziò a provare: per quanti sforzi facesse e per quanta energia ci mettesse, i due corpi metallici non volevano saperne di toccarsi, al contrario, più cercava di premerli l’uno contro l’altro, più una forza invisibile li rendeva inaccostabili.
- Bene, e adesso: basta gingillarsi! Stanotte si esce in gran segreto, ragazzo mio, e dimentica tutto ciò che vedrai... – disse il vecchio filosofo prendendo Cosimo di sorpresa – Ricorda una sola regola: in questo viaggio tu sei sordo, cieco e muto!
Il giovane non protestò; per fortuna il maestro non lo mandava da solo attraverso le grotte buie. Persino quando passarono per la “villa di Orfeo” non provò particolare terrore a incrociare le orbite vuote, della mummia della ragazza... perlomeno così l’aveva definita Giambattista. Lui, che l’aveva studiata meticolosamente in passato, senza provare alcun ribrezzo né raccapriccio. Il vecchio descriveva con freddezza scientifica, quel “quadro” orribile e crudele. Infatti: il cadavere, di cui ancora s’intuivano i vestiti di foggia femminile, sebbene, i liquidi organici essiccati e il logorio del tempo, avessero succhiato dalla stoffa incartapecorita ogni colore, se ne stava seduta per terra, in una posa quasi serena, appoggiato alla parete. Sembrava, di primo acchito, una mamma, che tiene in grembo il suo bambino, addormentato. Cosimo, però, sapeva bene in cosa consisteva il fardello trattenuto dalle dita scheletriche, si trattava di una testa umana, un cranio molto malamente conservato. Di certo doveva appartenere all’altro corpo, rinvenuto anni prima, dagli operai olandesi: a pochi metri. Riverso nella polvere antica, giaceva un corpo, decomposto da secoli, un corpo che iniziava dal tronco... la testa era stata mozzata in un tempo lontano. Giambattista, nonostante celasse ogni emozione, sembrava sempre un po’ titubante, rallentava rispettoso, nell’attraversare quella sala inattesa, rinvenuta con gli scavi segreti da lui condotti. Quando era incappato nella scoperta, il vecchio aveva battezzato quell’ambiente con un nome strano ed evocativo: la villa di Orfeo, ma Cosimo non ne conosceva il motivo.
L’imbrunire era trascorso da un pezzo.
Ormai, in quella che si preannunciava una notte senza Luna, a malapena si riusciva a vedere a metri di distanza, senza l’ausilio della lanterna. Dal campanile dell’antica chiesa la campana suonò per chiamare i monaci al mattutino: all’alba mancava oltre un’ora. I due si allontanarono rapidamente dalla villa; essa era situata all’inizio del piccolo Pagus, così non dovettero attraversare l’abitato dove, tra monaci e contadini mattinieri, l’attività era già quasi cominciata, quantomeno per passare dalla Chiesa e salutare l’altare, prima di iniziare ad attendere alle solite incombenze.
Il sentiero era largo e ben tenuto, la discesa verso il piccolo insediamento di Seiano era costante ma abbastanza ripida; sprofondava veloce verso il ramo destro del rivo, una delle biforcazioni: era ciò che restava del fiume preistorico che aveva scavato quello strapiombo. Una bomba vulcanica, milioni di anni prima, era stata sparata nel cielo e dopo aver compiuto la sua traiettoria. era precipitata rovinosamente nell’alveo del fiume, spezzandone il corso e costringendo la massa d’acqua a tentare, e a scavarsi altre vie, per raggiungere il golfo di Napoli.
- Ma dove andiamo così presto, maestro? – chiese Cosimo mentre arrancava alle spalle del vecchio signore: quello procedeva spedito, forse perchè era più magro e leggero.
- Dobbiamo ritirare una merce, un pacco assi prezioso. – rispose l’altro senza rallentare e tenendo la voce bassa – Una merce tanto difficile da ottenere che voglio recuperarla con le mie stesse mani!
- E di che si tratta? – incalzò Cosimo, con la voce spezzata da un po’ d’affanno.
- Pensa a camminare, giovane impertinente, fra un po’ ne saprai abbastanza da rimpiangere la tua ignoranza di adesso... Sai cos’é la Negromanzia?
- No, maestro, voi sapete meglio di me quello che so e quello che non so... – rispose il giovane con tanta ingenuità da far sorridere Giambattista.
- Bene... è la parte più oscura della scienza Alchemica e quella più lontana dalla Luce pura! – disse, fermandosi un attimo e voltandosi a guardare il ragazzo.
– La Negromanzia è Magia Nera. Non mi piace addentrarmi in questo campo oscuro ma questa volta è indispensabile. Quindi preparati a notti di veglia e mantieni integro e forte il tuo spirito, invece di chiacchierare come una donnicciola! – Riprese il cammino con passo ancora più deciso e Cosimo lo inseguì per non rimanere indietro, il sentiero era buio e gli faceva sempre più paura. Assicuratosi che il suo capo non vedesse si fece, rapidamente, il segno della Croce.
Dopo poco affrontarono une dei punti più oscuri e angusti della discesa. Ormai il mare non era lontano, un quarto d’ora, col passo che stavano tenendo. A Cosimo quella strettoia sembrava interminabile: ora il maestro lo aveva voluto d’avanti, affinché col coltellaccio spianasse la strada dai rami dei rovi più aggressivi. Lui sciabolava meccanicamente tra i cespugli e quei rami neri che sembravano mani adunche pronte a ghermirlo per trascinarlo nella macchia più folta, e poi su, su, verso il costone alla sua destra, fino alla grotta nera.
Infatti, nascosta nell’orrido, poco al di sopra del passaggio c’era la Grotta del Diavolo. Un piccolo cunicolo, che sembrava un occhio nero e scrutatore: terrorizzava il viandante anche in pieno giorno. Cosimo vi si era avvicinato da ragazzo, sostenendo prove di coraggio con i suoi coetanei, prove che lui non portava mai a compimento. Ma Alfonso sì; Alfonso era il più spavaldo dei suoi amici d’infanzia e per fare lo sbruffone, si era intrufolato più degli altri all’interno cunicolo, liscio e umido. Pochi attimi dopo era venuto fuori di corsa col cuore che batteva all’impazzata: in fondo alla grotta aveva visto il mare, ma nero come la pece e si perdeva nel oscurità... e qualcosa aveva smosso il liquido, creando delle onde orribili e fragorose. I ragazzi fuggirono tutt6i, Cosimo a capofila.
Ora il buio della notte diventava leggermente livido, a est un delicato chiarore indicava l’inizio del nuovo giorno. La vallata era profonda però, e prima di vedere l’aurora illuminare il cielo, mancavano non meno di paio di ore. Adesso la strada era assai più larga e, attraverso vasti tornanti raggiungeva il mare. I due si fermarono sul ciglio per lasciar passare un carro che scendeva veloce, probabilmente un contadino che portava frutta e verdura fresca alle barche, pronte a partire per i mercati delle ricche famiglie di Stabia, di Sorrento e di Capri.
- Il tuo spirito pauroso, buon Cosimo, induce nel tuo animo una notevole sensibilità verso i fenomeni inspiegabili e sovrannaturali. Naturalmente questa qualità, in te, oggi è più difetto che pregio ma se, con l’applicazione e l’esperienza, un giorno dovessi evolverti da questo tuo stato primitivo, questo dono naturale ti ritornerebbe assai utile. – cominciò il Maestro. Erano ancora fermi sul ciglio della via e lui non dava cenno di aver fretta di riprendere la discesa. Si spinse un poco oltre e, attraversando alcuni cespugli larghi, di macchia, raggiunse l’estremità del promontorio: da lì si vedeva la baia, dove le prime barche venivano caricate, grazie al pontile di legno. Intanto dal mare aperto rientravano i gozzi dei pescatori, gelosi delle loro secche segrete.
Il filosofo non aveva interesse per l’andirivieni della Marina, che iniziava a prendere il ritmo regolare delle giornate lavorative. Una campanella squillante iniziò a suonare dalla cappella di Sant’Antonio, chiamava le mogli dei pescatori alla prima messa del mattino.
Assai lontani erano i pensieri di Giambattista rispetto alle qualità del Santo, conoscitore di Diavoli e scacciatore di Demoni, al contrario, lo scienziato credeva proprio che approfondendo lo studio della magia nera avrebbe risolto il rompicapo, che lo attanagliava da alcuni anni.
Il vecchio osservava le barche che si avvicinavano, e Cosimo ebbe la netta sensazione che ne aspettasse una in particolare.
- Tieni, ragazzo, rifocillati con qualche albicocca. – e gli passò tre frutti, che prese da una tasca interna della sua giacca leggera. Lui stesso, spaccò un paio di frutti per masticare i bocconi nettarini.
- Poco fa, - iniziò a dire con calma, come se il loro viaggio avesse perso di interesse – ti ho notato; quando siamo passati davanti all’antica cisterna... “la grotta del Diavolo”, come la chiamano i contadini. Lo sai perché si chiama così?
Il padrone lo guardò senza interesse e non attese un suo cenno di risposta.
- Anticamente questa zona era molto apprezzata dalle famiglie Patrizie; molti nobili vi si stabilirono, costruendo ville spaziose ed eleganti. Non tutti si potevano permettere di abitare qui, i più ricchi però facevano a gara per seguire la moda e per essere vicini all’imperatore Tiberio. Questo, infatti, stabilì la sua reggia a Capri, invece che a Roma. Inoltre, questo luogo, in particolare, era molto di moda, perché la terra è ricca e l’acqua è abbondante. Per questo motivo, per alimentare le ville e le Terme delle ville dei nobili romani, vennero costruite molte cisterne e un sistema idraulico, talmente perfetto, che ancora oggi in parte, ce ne serviamo.
Ormai tutt’intorno era chiaro, e il maestro continuava a scrutare l’ingresso del porto, in direzione del vulcano Vesuvio.
- Ma la grotta del Diavolo è la più famosa e la più temuta delle antiche cisterne, e sai perché? – un sorrisetto strano e beffardo si disegnò sulla bocca sottile – Perché la gente ignorante, quando si convince di qualche idiozia è capace di qualunque azione, anche nefanda. Così, tanti anni fa si sparse la voce che, terrorizzati dagli invasori, gli antichi proprietari avessero nascosto tutti i loro tesori in una sola villa, tenuta segreta e sorvegliata da guardie armate. Il tempo passò, del tesoro si persero le tracce, finché una donna, malata di mente, venne creduta un’indovina... la reincarnazione di una abtica sacerdotessa. La vecchia matta nei suoi vaneggiamenti parlò della grotta, di un guardiano di pietra a guardia del tesoro: e disse che solo con un sacrificio si poteva ottenere il permesso dal guardiano e trovare il nascondiglio delle ricchezze. – Cosimo aveva i brividi: adesso aveva cento ragioni in più per tremare, quando si fosse ritrovato a discendere il Rivo.
– Effettivamente, all’epoca, con l’acqua trasparente, si vedeva sul fondo ciò che restava di una vecchia scultura, caduta forse a causa di un terremoto, e così, invasati dalla febbre dell’oro, pare che alcuni stolti, una notte non trovarono niente di meglio da fare che mandare la vecchia a parlare con la statua. Naturalmente la poveretta dovette lanciare urla raccapriccianti prima di annegare, mentre affogava e malediceva la sua fervida fantasia...
Il volto di Giambattista s’illuminò all’improvviso, prese Cosimo per il braccio e lo strattonò:
- Presto, adesso è ora di andare a ritirare la mia merce... – e mentre scendeva rise in maniera sonora, cosa che il ragazzo non gli aveva mai udito fare. – Il tesoro c’è ragazzo mio... esiste ma non era certo alla portata di quattro bifolchi inferociti... vedrai, vedrai, mio pauroso discepolo!
In pochi minuti, i due, raggiunsero il porticciolo, ormai fervente dell’attività del primo mattino. Forse era proprio quello che cercava il maestro: nel via vai di mercanti, marinai, pescatori, venditori di pagnotte e ladruncoli, probabilmente riteneva di passare inosservato nel ricevere la sua merce, probabilmente preziosa. Da un gozzo nero, scesero due sgherri, con una faccia davvero poco raccomandabile e si portarono a ridosso della Torretta di avvistamento. La porta era ancora chiusa e i sorveglianti, stanchi e assonnati, erano in attesa dell’imminente cambio della guardia. Scambiarono con Giambattista solo poche parole: il vecchio fece una specie di controllo sommario. Uno dei personaggi, infatti, gli mise sotto gli occhi un cesto, coperto da un telo bagnato, che sembrava ne più ne meno che una sporta di patate. All’epoca i nobili amavano piantare nella terra quel nuovo ortaggio, per aggiungerlo, cotto e saporito, alle loro pietanze. Con destrezza il vecchio fece scivolare in mano all’altro una borsetta di monete e, in un attimo l’affare fu concluso. La cesta venne affidata a Cosimo: era pesante ma il ragazzo non ebbe tempo di lamentarsi. Un cocchiere con la sua vettura arrivò proprio in quel momento nello spiazzo alla fine della via. Il padrone doveva averlo ingaggiato dal giorno prima.
- Sali e carica il cesto tra le tue gambe! – intimò Giambattista – Torno subito. Cosimo lo vide contrattare con alcuni pescatori e quindi tornare alla vettura con un cartoccio di pescetti per frittura...
- Oggi abbiamo fatto buona pesca e buona caccia... vai pure , cocchiere!
Il filosofo era assai allegro, sembrava felice e spensierato quella mattina... Cosimo non lo aveva mai visto così.
La carrozza si mosse e iniziò la via lunga, che si arrampicava sulle verdi colline della Penisola Sorrentina.
Dalla Torre di Guardia, intanto, un ospite vestito di scuro, aveva osservato attentamente la scena. Neppure i soldati di corvee ne conoscevano l’identità: era stato accompagnato dal Capitano la sera e trattato con riverenza. Ora attendeva solamente il cambio della guardia, per sgattaiolare fuori, evitando il più possibile di farsi notare e per correre a riferire, riguardo alla missione che gli era stata affidata.
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