Facile come sparare sulla Croce Rossa

Capitolo 1 - Fattore Eternità

sanbandaleone
19 days ago

’Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l'etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.

Giustizia mosse il mio alto fattore;
fecemi la divina podestate,
la somma sapïenza e ’l primo amore.

Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterna duro.'


(Dante, Inferno, canto III)


Prologo


Bang. Bang. Bang.

Sembravano colpi di pistola.
Marino si svegliò prima che il cellulare emettesse il ronzio richiesto, all’ora stabilita.
E dire che aveva segnato le 6 sul display ma, ovviamente, non stava nella pelle: era un giorno troppo importante, per tutta la famiglia e, in particolare, per lui.


1

Anni di sacrifici, anni di rinunce, eppure tutte volontarie. In realtà tutto quello che aveva fatto non gli era mai costato niente, sia in termini affettivi che spirituali, potremmo dire. Certo aveva sentito la fatica; il riposo spesso negato; le apprensioni… lo stress, ma ciò che aveva fatto lo aveva fatto sempre e solo per amore! Un amore infinito, incommensurabile. Un amore che ne conteneva due… anzi “due al quadrato” come gli piaceva pensare nei momenti in cui si guardava intorno, per casa, e le ascoltava, le vedeva: spensierate, allegre e, per quanto possibile, felici.
L’amore di Marino aveva dovuto moltiplicarsi per due. E certo, da quando la povera mamma li aveva lasciati in quel freddo, orrendo, febbraio, lui aveva dovuto cercare dentro sé tutto il coraggio e la forza per superare il dolore immenso e la paura.
Due bambine senza più la mamma e, per lei… per lei una fine tragica, ancor oggi inspiegabile. 
Ma in quel giorno Marino non voleva pensare alle cose brutte; il passato è passato. Quindi: doppio amore e poi “al quadrato”, perché le sue “bambine” erano due, erano stupende e lui… lui avrebbe dato qualsiasi cosa. Forse sarebbe stato impossibile non farle soffrire mai ma, almeno, il suo amore senza riserve doveva lenire, addolcire, rendere sopportabile l’amara, amarissima pillola, quando erano ancora piccine.
Marino si alzò di scatto. Nonostante i “cinquanta” suonati si teneva ancora in forma. Era un uomo forte e robusto, si vede che l’esercizio fisico e il lavoro faticoso gli facevano bene.
Infatti…
Sì, proprio. Ma… ma che lavoro faceva? Questi maledetti vuoti di memoria, cominciavano ad allarmarlo; prima o poi si sarebbe deciso ad andare dal medico.
Ma certo, che pazzia, faceva il poliziotto e da tanto; cominciava già a fantasticare riguardo alla sua età pensionabile.
La casa era ancora sprofondata nel silenzio.
Passò dal bagno, poi in cucina  si mise, lentamente, a preparare il caffè. Agiva con lentezza, i movimenti si susseguivano meccanicamente, frutto degli anni, della lunga sequenza di gesti che ripeteva giorno dopo giorno… e intanto le ragazze crescevano: crescevano e si facevano belle; crescevano e si facevano donne. Eccolo lì, di nuovo perso tra i pensieri. Ora Rosa e Viola erano due donne, tant’è che proprio quel giorno, insieme avrebbero compiuto il passo decisivo: Rosa e Viola si sposavano! Un po’ il destino, un po’ la voglia di condividere tutto, com’era sempre stato nella casa paterna, e così… i segni dello Zodiaco si erano voluti incontrare, poi sovrapporr, fino al responso più inaspettato: si sposavano insieme e la sua mente ritornava su questa mistica combinazione.
“Cazzarola!” ripensò per l’ennesima volta in quei suoi monologhi silenziosi e mattutini, “per forza insieme, mannaggia a voi?”
Pensieri suoi, reconditi, segreti; nonostante qualche collega che lo conosceva bene, non si astenesse dal lanciargli una bonaria frecciatina. “Che c’è,” dicevano “ torni scapolone a 50 anni?”; “Marino, cosa ho saputo? Il padrone di casa sta per perdere le sue fidanzatine”. Battute affettuose, senza malizia, tutti sapevano quanto aveva fatto e quanto le amava.
Molti di loro lo avevano aiutato nei momenti bui… all’inizio era stata dura. Loro e le loro mogli si erano prestati quando potevano per rendere più facile il suo calvario: i più intimi, quelli che le conoscevano e che avevano imparato a volergli bene. Le sfottevano, le chiamavano le “fidanzatine di papà”.
Il rumore del caffè che borbottava nella moka venne sopraffatto dal suono della sveglia.
Le 6, era ora, pochi minuti e sarebbe iniziata per tutti quella nuova, impegnativa giornata. Due matrimoni celebrati contemporaneamente; le ragazze avevano pochi anni di differenza. Avevano studiato, erano cresciute in fretta e bene, ma lo avevano ricambiato, donandogli la felicità di avere due figlie brave, serene, consapevoli.
Fidanzate con due ragazzi apposto… di lì a stabilire di sposarsi insieme il passo era stato breve. Ogni cosa  aveva funzionato: vento in poppa… per tutti. Per le figlie, per i loro fidanzati, per le famiglie felici di perdersi nei preparativi, e puntando, per prima cosa, sul fanatico esibizionismo…
Quella macchina infernale chiamata Nozze, da quasi due anni era stata messa in moto e adesso fagocitava tutto: amori, fiori, bomboniere, signore con le scarpe
strette e uomini che, appena possono, si slargano il colletto della camicia per tornare finalmente a respirare.
Da un lato non era un grande male, dopotutto un solo matrimonio costava comunque meno di due… e poi lui era schivo, non frequentava molte amicizie se non quelle che gli portavano a casa le ragazze; di conseguenze non era molto amante delle feste. Ma c’era il rovescio della medaglia, quello più amaro e dolente, le sue figliole, dopo più di quattordici anni di convivenza solo col padre, avrebbero lasciato insieme la casa.
Non osava pensare a quella sera.
Tutto era tutto già organizzato… le ragazze avrebbero dormito nell’albergo, il giorno dopo: via, in viaggio di nozze e poi… e poi… chissà? Una sola cosa era sicura, lui sarebbe rimasto da solo nella casa che, d’improvviso, diveniva troppo grande.


2

- Il giardino? Eh? Ah, sì… il giardino è perfetto! – Marino vi faceva mente locale solo in quell’istante, ma comunque gli venne subito in testa tutto il lavoro che aveva dovuto assolvere per rendere quel poco di terreno, che circondava la casa,  un giardinetto carino e… fotografabile. Infatti, il problema era tutto li, le sposine dovevano farsi le foto a casa, e poi nel giardino. Quando lo informarono di questa “necessità”, per poco non gli era venuto un coccolone. Non bastava tutto quello che faceva da oltre un anno, protagonista trascinato e inconsapevole di quell’avventura matrimoniale. Bisognava anche tinteggiare la casa e sistemare il giardino. Piccoli ritocchi, deboli trasformazioni: da villetta a schiera di provincia a Buckingam Palace.
Ma lui che ne sapeva di tutte queste “spettanze”?
Con la sua Margherita s’erano sposati in fretta e furia, tutte le questioni che riguardavano etichetta e galateo se l’erano sbrogliate sua moglie e la madre. Marino lo compativa adesso, dopo tanti anni, perché solo adesso poteva capire cosa aveva dovuto passare il suo povero suocero.
Comunque era fatta! Anzi proprio la sera prima… la sera prima… aspetta? Cosa aveva fatto la sera?
Ah sì, ecco, per l’appunto: aveva dato gli ultimi ritocchi al giardino. Il fioraio lo aveva aiutato, per fortuna. Avevano coperto, ad arte, le piccole pecche dovute alla fretta e al suo “occhio” poco avvezzo alla leggiadra gentilezza del “ditelo con i fiori”.
- Papà? Papà, ma che hai, mi senti?
- Ma certo gioia mia, certo… te l’ho detto, il giardino è prontissimo! – sorrise alla sua piccola Viola; circondata dalle amiche, inseguita dalla sarta. Senza tacchi, mentre si spostava con quell’esplosione di tulle e merletti grottescamente raccolti tra le braccia allargate, nel controluce sembrava ancora la sua piccina, quando giocava e si vestiva come una piccola principessa.
- Non ti scordare! A mezzogiorno meno un quarto… passa con lo spruzzino tutte le piante, così nelle foto vengono le stelline. – sbuffò verso l’alto per abitudine, ma i capelli della sua frangetta non si mossero di un millimetro, bloccati dai bigodini.
Marino non potè osservarla per un attimo di più… via di corsa, adesso era Rosa che chiamava. “Corriamo a vedere a questa che altro le manca…” pensò, mentre si recava a grandi falcate nella camera da letto.
Si scontrò con zia Tina, ma non ebbe tempo di scusarsi. I loro sguardi s’incrociarono e lei gli sorrise bonaria; comprendeva appieno quello che il poveretto stava passando. Lui le fu grato, ancora una volta, di quanto aveva sempre fatto per le ragazze: come una mamma, sempre. Quel solo sguardo gli diede forza: in quei pochi istanti si scambiarono, tacitamente, tutta la stima che nutrivano l’uno per l’altra e si confidarono, ancora una volta, tutto l’amore che avevano investito nelle due ragazze. Quelle bambine dolci che si erano trasformate in vere, bellissime donnine.
L’orgoglio di papà!
- L’anello, - strillò Rosa, - senza l’anello non mi sposo!
“Uh… quell’anello! Sì!” come aveva fatto a scordarsene? La ragazza glielo chiedeva da mesi.

3

Per raggiungere il retro della casa, a causa di vecchi lavori, quelli che avevano concordato con i vicini tanti anni prima, bisognava uscire. Anche i coinquilini avevano guadagnato dello spazio supplementare (e anche un po’ abusivo) e per raggiungere i garage,  sottoposti, bisognava attraversare un piccolo corridoio all’aperto ma, comunque, protetto da una pensilina di ferro e cristallo.
Marino non andava volentieri in quella zona della sua casa, perché… già perché? Non riusciva a pensarci  adesso, ma sapeva che non amava andare nello stanzino, adiacente al garage; forse per questo aveva sempre rimandato. Ora non c’erano più scuse. Se non portava l’anello della madre a Rosa, sua figlia gli avrebbe piantato un casino infinito, la conosceva bene.
Aprì completamente la saracinesca, per far entrare luce, e decise di lasciarla così; era sicuro che l’auto gli poteva tornare utile, l’avrebbe comunque tirata fuori, per andare alla chiesa. Dopotutto l’aveva pulita accuratamente un paio di giorni prima; ora una spolverata col piumino e sarebbe tornata scintillante.
Dopo la macchina, il ripostiglio: era ampio e conteneva anche la caldaia. Levando lo sportello della caldaia si poteva accedere a un vano nel muro, creato proprio da Marino tanti anni prima. Ci aveva cementato una cassetta di ferro per tenerci quei pochi oggetti di valore; i piccoli tesori di una famiglia umile, normale.
Scattò indietro come una molla! Un brivido veloce gli attraversò il corpo e, arrivato alla nuca, gli fece rizzare tutti i peletti…
Dovette fare uno sforzo notevole per riprendere il suo sangue freddo e ritrovare un certo equilibrio…
“Cazzarola! Che reazione esagerata… e diamine.”
Effettivamente, ora che il suo respiro era tornato normale, si disse che era stato un vero cretino.
Andò in macchina e prese la pila dal portaoggetti, poi tornò verso lo stanzino, la fioca luce non riusciva a rischiarare abbastanza da rendere ben visibili i due corpicini, raggomitolati sul pavimento.
“Topi!” pensò Marino, si sa, dove c’è un giardino, i piccoli roditori non mancano mai… Ma fece luce e… non erano topi.
Erano due micini, due gattini piccolissimi, di certo erano stati partoriti da poco, prima di morire… intorno ancora l’umido dei fluidi corporei e il bruno rugginoso del sangue.
Ma come erano finiti nello stanzino? La porta era sempre chiusa, o quasi… là dentro c’erano solo un paio di scaffali metallici contorti dal tempo, ricoperti di scatoli e buste polverose, nessuno più sapeva cosa ci fosse dentro; memorie inutili di un passato dimenticato.
Spingersi con il fascio della lampada un po’ più oltre, gli venne quasi automatico. Gli sembrò di scorgere un bagliore e si abbassò, per guardare meglio.
Marino scartò di nuovo, arrancando in maniera talmente sconnessa che cadde. Si ritrovò seduto per terra con le gambe divaricate… ma ancora scalciava per sfuggire a ciò che aveva veduto.
Si bloccò solo quando, con la schiena, finì contro la fiancata dell’auto.
La pila era caduta, spegnendosi. E lui si teneva le mani sul petto, che adesso gli doleva per lo sgomento.


4

Rientrò in casa tutto sudato. Non riusciva a togliersi dalla testa quegli occhi vitrei, che lo fissavano, riflettendo la luce della torcia.
Sotto allo scaffale c’era una gatta, morta stecchita, come i suoi cuccioli. Doveva essere morta nel darli alla luce… o chissà come e perché. Marino non voleva fare indagini. Ripresosi dallo spavento e dalla sorpresa, in fretta e furia aveva raccolto l’anello dalla cassetta ed era tornato verso casa, sbattendosi la porta alle spalle.
- Ehi, pa’… che c’è? Ti senti bene? – disse Viola trovandoselo davanti mentre stava per uscire – Sembra che hai visto un fantasma… sei bianco…
La figlia lo scrutò, quasi sul procinto di preoccuparsi.
- No, niente, niente, tesoro… forse è l’emozione. Non ci pensare… Fatti vedere: come sei bella…
- Grazie, babbino mio. – lei lo fissò negli occhi con un sorriso, ma al padre si strinse di nuovo il petto, facendogli quasi male… lo spavento di prima era stato davvero forte, e maledettamente sproporzionato!
Lui tagliò corto e sfuggì al suo sguardo. Per qualche motivo invece di rasserenarlo lo rendeva nervoso:
- Ho capito… ho capito… non mi sgridare! Corro a spruzzare la “rugiada” sui fiori. – fece una smorfia, per dimostrare di sentirsi più vispo di quel che veramente era. Quella gatta maledetta lo aveva profondamente scosso, maledizione. – Ah, fammi un favore, porta questo a tua sorella… è l’anello, l’anello di mamma, ok?
- Ok, papà – la ragazza, ormai completamente vestita si voltò e mentre rientrava, gli strillò, - E cambiati la camicia, che questa si è tutta macchiata… nel cassetto, prendine una ben stirata!
“Sporca?” pensò Marino “e di che?” Beh, non ci fece più caso, tanto la doveva cambiare comunque: si era fatto proprio una bella sudata, del tutto inattesa per essere in febbraio.

5

Ormai mancava poco.
Marino non riusciva a togliersi dalla testa il faccione di quella grossa gatta. I suoi occhi vitrei, spalancati, luccicanti stridevano con l’immagine di tenerezza che gli avevano suscitato i due micetti morti.
Per l’indomani si ripromise di dare, per prima cosa, una bella ripulita facendo sparire tutto quel “putridume”, che aveva infestato la cantinola. Sì, si sarebbe rimboccato le maniche! E poi con la rete di acciaio avrebbe risistemato tutti gli accessi e i finestrini; probabilmente la micia doveva essersi infilata proprio da qualche vecchia difesa, corrosa dalla ruggine del tempo.
Ormai davanti a casa era un continuo andirivieni: parenti, amici, vicini, ne sentiva il vociare concitato e festoso. Tutti si accalcavano per dire la loro, per fare un complimento o per lanciare un augurio. A Marino venne da pensare a sua moglie, la mamma delle sue bambine; stranamente quel ricordo non raddolcì la sua tensione, al contrario, lo infastidì! Nel profondo della sua mente, qualcosa di stupido e malato gli suggeriva un’immagine della moglie del tutto falsata, quasi odiosa. La stanchezza forse, la tensione di quei giorni: eppure nei suoi ricordi il volto di sua moglie si sovrapponeva, si confondeva con quello della gatta morta. Occhi vitrei e gelidi che lo fissavano, soprattutto quelli.
Marino scacciò via quei ricordi orrendi e si apprestò a vaporizzare l’acqua fresca sui fiori assetati, in giardino. Doveva fare in fretta; di li a poco le figlie e il loro stuolo di festeggiatori si sarebbero sparsi nel crocicchio del vialetto: chiacchierando, parlottando e sfottendo, mentre il fotografo avrebbe dato sfogo a tutta la sua capacità per rendere i suoi “120 metri quadri” un piccolo orto botanico.
Per fortuna, Guglielmo, il fioraio, lo aveva aiutato a sfruttare al meglio le sue risorse “floreali”… ora mancava solo il tocco finale.
Qualcosa non andava!
Qualcosa non andava. Ma certo! Era incredibile… inspiegabile… oppure una spiegazione c’era, orribile ma c’era: Marino stava diventando pazzo!
Il suo modesto giardino era inequivocabilmente tappezzato di fiori rossi: i suoi innocenti gerani, erano rossi,ogni singolo petalo! Anche quelli delle piante che avevano i fiori lilla, o rosa: rossi. Inequivocabilmente rossi.
E ghirlande, festoni, bouquet, tutti i fiori che Guglielmo aveva installato la sera prima, tutti fiori che, lo ricordava perfettamente, erano per la maggior parte bianchi immacolati, intervallati con macchie di rosa pallido o fucsia, adesso erano tutti di uno sgargiante rosso vivo, un rosso prepotente, un po’ inquietante, ricordava il colore del sangue…
Si stropicciò gli occhi. Era vittima di un’allucinazione? Era lo stress di quei giorni concitati? La stanchezza, tanti sacrifici, anni di abnegazione al servizio del lavoro ma, in realtà, dedicati giorno dopo giorno, alle sue due meravigliose ragazze…
Che confusione.
Una coppia di vicine gli venne incontro:
- Marino prenda i cellulari, le ragazze hanno detto di darglieli, così li mette nel borsone marrone… - disse una, - dice che poi, stasera li recuperano, per adesso non servono più!
Li prese meccanicamente e ritornò verso casa insieme alle donne, come si chiamavano? Maledetta stanchezza, le conosceva ma non si ricordava un solo nome.
- Avete… avete visto i fiori. Avete visto? Io… io non…
- Bellissimi, bravi! Avete fatto una cosa bella!
- Sì, veramente. Il giardino è uno splendore, complimenti!
“Ma che diamine!” pensò “queste oche non si accorgono che è assurdo… tutto questo rosso sangue è… è opprimente!”
- Viola– chiamò prima di rientrare, - hai un minuto? Un minuto solo. È successa una cosa…
Fortunatamente la ragazza passava dal corridoio a grandi falcate, per raggiungere il salotto dove avrebbe indossato le scarpe.
- Che c’é papy? Sbrigati che ormai ci siamo…
- No, dicevo… il giardino…
- Uscire? Non se ne parla nemmeno, sono scalza. Che ha il giardino, adesso?
- Beh, puoi vedere anche da qui, già si vede… guarda.
La giovane spostò gli occhi e diede una fugace occhiata alla grossa fetta di giardino che si vedeva dalla zona del patio.
- Sì… bello, papà: è perfettissimo, bravo! Ma adesso dobbiamo proprio andare, - distolse lo guardo senza batter ciglio, gli diede un bacetto di gratitudine e poi si allontanò in fretta. – E cambiati subito questa camicia che è zozzissima!
Ma erano tutti matti? Insomma i matrimoni mandano molta gente in fibrillazione, soprattutto le femmine, ma di qui a non vedere…
Rimase perplesso ma cercò di fare finta di niente, non era momento per focalizzarsi sulle stranezze. Se per loro andava bene, tutto a posto. Non sarebbe stato certo lui a piantare una grana, proprio in quei momenti fatidici.
Fece per entrare in casa.
Due leggerissimi tonfi alle sue spalle lo fecero comunque voltare.
- Cosa… ? - non vide niente. Non aveva finito di parlare che, dalla tettoia, rotolarono sul pavimento due batuffoli di pelo grigio. Qualche metro più in là, un corvo nero e grosso volava e si allontanava, stagliandosi contro il cielo chiaro.
Per terra davanti a lui due pulcini, morti stecchiti. Piccole macchie di sangue raggrumato spiccavano sulla peluria color tortora.

Sei

Salì le scale a grandi passi lasciandosi dietro la confusione.
Il bagno della sua camera era libero per fortuna, vi si precipitò chiudendosi la porta alle spalle. Il cuore che batteva forte nel suo petto: si mise la mano sul torace.
“Non adesso… non adesso…” implorò nella sua mente, “Non adesso che c’è il matrimonio tra poco, cazzo!” mancavano minuti ormai. Non poteva sentirsi male, non poteva rovinare quel giorno alle sue figlie.
Le aveva cresciute con tutto l’amore possibile. Le aveva cresciute tra mille difficoltà nonostante la madre… la madre, assente, lui da solo.
Prese del Lexotan dall’armadietto delle medicine.
Sedette sullo sgabello, confuso, impaurito. Temeva di perdersi, temeva di sentirsi male… non voleva assolutamente distruggere la festa alle ragazze.
Pensò alla loro madre, a sua moglie e invece di raccogliere le idee, gli capitava qualcosa di incredibile; un processo inverso al ricordare.
Gli sembrava di avere tutto ben definito nella mente ma, quando provava a focalizzare qualcosa, il ricordo invece di diventare più preciso gli sfuggiva, si dissolveva… era come provare a inseguire qualcuno in un dedalo di corridoi: non che si nascondesse, ma sembrava fare in modo da non essere mai dove lui cercava. Era come se il passato lo prendesse in giro.
Lui sapeva perfettamente chi era; era consapevole della sua esistenza: gli anni passati da solo con le figlie amatissime, la mancanza della moglie morta… morta? Ma era morta veramente? Incredibile, increscioso, come poteva non ricordare precisamente una cosa così importante?
Non aveva più dubbi, Marino stava poco bene ma cercò di passare una spugna su tutta quella strana mattinata, doveva resistere, non doveva abbandonarsi allo sconforto! Un giorno di felicità sembrava volersi trasformare nel suo incubo peggiore. Maledì il suo corpo: vecchia carcassa che non riusciva a tirare avanti neppure almeno per un giorno. Attribuì il suo stato alla tensione, sudore freddo gli imperlava la fronte, il petto, le ascelle. Gli venne in mente che doveva cambiarsi la camicia… si alzò, si guardò allo specchio.
Niente: quella voleva proprio diventare una giornata nera, porca miseria!
Cos’altro gli capitava, adesso.
“Sporca?” pensò, “Altroché questa camicia fa paura… ma che diavolo…?”
Le ragazze e chi lo aveva visto prima aveva usato un eufemismo a definire sporca la sua camicia… era raccapricciante! Macchie, schizzi di un ruggine acceso, la costellavano… nemmeno il camice di un macellaio presentava tante, maledette, macchie di sangue. Spruzzi vermigli e densi arrivavano fino al collo.
Ebbe un violento giramento di testa, poi un conato di vomito lo costrinse ad abbattersi sul lavello.
“Sporca,” si disse quando riprese il controllo di sé… “nemmeno la camicia di un serial killer è combinata in queste condizioni. Ma che hanno tutti, oggi? Non vedono che tragedia mi porto addosso…?”
Si stupì. Che razza di pensiero aveva appena formulato?
Che voleva dire? Aveva indosso una camicia sporca… ok, la più fetente e raccapricciante delle sporcizie! Ma cosa c’entrava la parola: tragedia?
Stava impazzendo, diamine!
Aveva esagerato; si era dato troppo, in ogni cosa, e adesso ne pagava le conseguenze… forse aveva sbagliato a prendere il calmante.
Sedette di nuovo cercando di respirare piano ma profondamente.
Quanto aveva lavorato in quegli anni… quante cose aveva fatto. Ma ora che cercava di concentrarsi su come aveva passato tutti quegli anni non riusciva a rintracciare, con precisione, niente… era come se nella sua mente fossero montate le scene di un teatro, alte quinte, che rappresentavano qualcosa, ma quando si avvicinava a un ricordo (a un pannello dell’oscura scenografia) si rendeva conto che era inconsistente, vacuo… un pezzo di stoffa vuota che nascondeva il nulla.
Che immagini buie, quanta solitudine, nella sua povera testa flagellata dai suoi sforzi inauditi… e sua moglie? La mammina delle bambine? Che fine aveva fatto? Possibile che non sapesse niente di quella donna, che, non ricordava bene come, aveva fatto tanto male, sia a lui che alle figlie. Era viva? Era morta?
“Carogna!” pensò senza una vera ragione, ma dentro sé accumulava una rabbia inutile e senza senso.
“Devo andare,” pensò “devo farmi forza e andare. Non posso abbandonare le mie bambine. Darei la vita per loro… darei la vita per proteggerle sempre; perché a loro non deve succedere mai niente di male… perché la loro vita dev’essere lunga, prospera e felice! Anche oggi, anche in occasione del loro matrimonio! Sarà una festa speciale e lui aveva fatto di tutto, affinché lo fosse… non avrebbe mollato nemmeno adesso.”
Si cambiò la camicia, mise la giacca e uscì nella luce plumbea di quel triste febbraio.

7

Il vocio degli ospiti era sparito.
Ora di fuori c’era solo silenzio, spezzato qua e la dal tic leggerissimo di una goccia di pioggia.
“Ci mancava la pioggia,” si disse “speriamo che non arrivi un acquazzone a guastarci la festa.”
Il cielo grigio e solenne non prometteva niente di buono.
Guardò il giardino. Che succedeva ancora? Un effetto di luce? Il cielo scuro?
“Ma no… impossibile! Ancora stranezze… ancora la mia testa mi fa brutti scherzi!” Non poteva andare avanti così: deciso, il giorno dopo sarebbe andato dal medico!
Adesso i fiori erano diventati neri...
“Ma che cazzo di colore è? Dove si son mai visti fiori neri!” ricordò di aver sentito dire che alcune malattie del cervello potevano rendere daltonici, o lasciar vedere solo in bianco e nero “Sto peggiorando sempre di più…” alzò gli occhi al cielo, e sottovoce:
- Ti prego, ti prego mio D… - la lingua si bloccò – Mio D… dammi la…
“Ma che vuol dire?” Adesso aveva veramente paura… voleva pregare. Non che fosse un uomo assai religioso, questo sì. Ma non riusciva a formulare le frasi, non riusciva a profferire la preghiera, gli mancavano le parole… gli mancava il concetto! Chi pregare? Come si chiamava quel… quel qualcuno? Eppure, e questo lo ricordava benissimo, da ragazzino sapeva pregare. Aveva fatto quelle cose che fanno i ragazzi. Normale!
Lui ci era andato in Ch… ? A fare il Cat… ? Niente, non riusciva a focalizzare una sola parola che riguardasse la sua religione… e dire che l’aveva avuta. Era sicuro lui era Cri…
Niente!
Che razza di malattia poteva affliggerlo? Non vedeva più i colori; non ricordava parole comuni; perdeva sangue dalla tempia…
“Cosa?!” automaticamente si portò la mano alla testa “Che mi venga un colpo!” era vero. Quel pensiero assurdo definiva un qualcosa di reale.
Qualcosa non andava, e di brutto, sull’orecchio destro. Ritirò le dita: erano intrise di sangue e piccole schegge biancastre. Per l’orrore gli si fermò il respiro e le mani si contrassero per il raccapriccio.
“Mi sono tagliato!” pensò, ma quando e dove restava un mistero.
“Aspetta” ci pensò “Il sangue rosso lo vedo… i fiori no, li vedo neri… come può essere?” Delicatamente, sconquassato dal terrore, trovò la forza di toccarsi di nuovo l’orecchio, o ciò che ne restava, aveva una forma strana. La tempia era molle e vischiosa. Non c’era più l’osso, comprese che il dito poteva entrargli persino nella testa, se solo avesse avuto il coraggio di premere.
Doveva resistere. Doveva andare dalle sue ragazze.
Probabilmente si era fatto male in garage, un graffio profondo ma non se n’era accorto. Che fosse quella maledetta botta la causa di ogni suo malessere? Di quelle stranezze… della perdita di memoria?
Si tamponò la testa col fazzoletto.
Il giardino, ora che tutti se n’erano andati, era cupo, con quei maledetti fiori neri e le foglie morte, fradice… quel poco di pioggia aveva già fatto tanto danno? Possibile?
Girò, infilandosi nel corridoio che portava al box. In fondo, sotto la pioggia che incalzava, una macchia scura… “Un animale?” pensò… fece ancora qualche passo ma poi arretrò come se avesse visto un fantasma.
La gatta! Sembrava la gatta… quella che doveva essere morta.
“Maledetta puttana!” cercò di aguzzare la vista, sperando di sbagliarsi! No, era la gatta e lo guardava con odio, non era morta! Gli occhi gialli fiammeggiavano di odio, sembrava che lo maledicessero.
- Che vuoi, - disse quasi gridando – che vuoi, troia, puttana. Non le ho uccise io… io non c’entro… non c’entro. Le micine erano già morte… non sono stato io, non sono stato io.
Si voltò e iniziò a correre in preda al terrore.
“Chi diavolo è? Gatta di merda…” correva via, la chiesa non era lontana, doveva sbrigarsi, doveva lasciarsi dietro quella casa di merda e tutte le sue brutture.
Lo sguardo accusatore e malefico lo sentiva ancora su di sé, nonostante si allontanasse lungo il viale che portava alla piazza della Chiesa.
Quella gatta rediviva e lercia aveva avuto la capacità di rovinargli la giornata! Schifosa. Ecco chi gli ricordavano quegli occhi accusatori, sua moglie. Sì, proprio lei, la madre indegna delle sue creature.
Proprio quelle creature che lui aveva salvato! Le aveva rese felici, sane… bellissime.
E oggi si sposavano!
“Vaffanculo!” pensò “oggi si sposano e vivranno ancora tante giornate di gioia! Così come tutta quella vita favolosa che lui aveva saputo confezionare per loro!
- Vaffanculo! - ripetè. Avevano avuto meravigliose feste di compleanno; avevano avuto con sé le amiche più care… i primi amori; le cotte che non le facevano dormire di notte. E vacanze spensierate… viaggi da sogno… le prime discoteche. Il primo bacio rubato… quello di cui “papà” non doveva sapere.
Quante cose belle aveva donato alle sue ragazze; quante volte le aveva confortate per un dispiacere… o un brutto voto. Quante volte aveva pianto di gioia per la loro felicità!
E non finiva qui!
Pensava con rabbia alla gatta maledetta, che sembrava volergli rinfacciare chissà che, con i suoi occhi schifosi, vitrei, perduti tra la morte e la vita.
“Vaffanculo, non finisce qui… puttana… tu che ci volevi dividere. Tu, schifosa, che magari pensavi di stringerti tra le braccia di un altro. Femmina di merda… ma ci ho pensato io a te, a levarti di mezzo, a estirparti dalle nostre vite felici. Come un cancro… un maleficio!”
- Io le ho salvate da te! – quasi rise, disperato, mentre correva sotto quella pioggia eterna, che invece di lavare, lo sporcava e lo infangava di più.
- E non finisce qui! Dopo il matrimonio, saranno felici. E avranno dei bambini… e saranno sempre con me, con me…
per sempre.

8

La piazza era vuota.
Non c’erano più palazzi intorno se non rovine. La chiesa stessa era ridotta in uno stato penoso. Le finestre rotte; i vetri dipinti, ora erano frantumati e sbiaditi dal tempo… il campanile, parzialmente crollato; la porta spalancata a causa delle cerniere divelte da un vento del passato.
Non c’era una sola croce, non un solo simbolo di pietà cristiana. Tutto era marcio per la pioggia dirotta. Una nebbia di putredine si levava da cumuli inidentificabili e immondi. Rumori sinistri e cupi lo raggiungevano da luoghi lontani e indefiniti.
Il cielo era oscuro di un colore che non era notturno.
“Ma che diavolo è?” si chiese l’uomo, avanzando a passi sconnessi, mentre si voltava intorno per capire. “Ma che fine hanno fatto gli ospiti? Ho sbagliato? Dove sono finito…?”
Nonostante avesse corso tanto, adesso, accovacciata sulle scale del portale della chiesa, c’era già la gatta. Immobile e spietata lo osservava con gli occhi di sfida, dandogli i brividi.
Non capiva più molto di ciò che gli stava capitando, sembrava che il mondo si stesse rovesciando… ribaltandosi tutto al negativo: colori, cose… responsabilità!
Era molto confuso ma adesso iniziava ad accettare molte cose, cose che prima non gli erano chiare: le parole a sproposito; i ricordi fumosi: le responsabilità.
Responsabilità, ancora quella parola, opprimente come un macigno. Gli pesava talmente sulle spalle da fargli piegare le ginocchia, costringendolo ad avanzare a tentoni. Persino gli occhi della gatta gli pungevano la mente, come spade appuntite, armate da un odio che non si estingue.
- Ma che ho fatto, - sussurrò sotto la pioggia, – che ho fatto? Perchè mi guardi senza rispetto! Tu devi essere morta, maledetta… morta e sepolta sotto i tuoi peccati. Io stesso ti ho punita, gatta puttana, schifosa. Mi volevi lasciare! Volevi distruggere la mia famiglia; far soffrire le mie creature. Vattene: sei morta, ti ho uccisa con queste mani… vattene! Lasciaci alla nostra vita felice, anni e anni insieme, io e le bambine… anni d’amore, e tanti ancora che ci aspettano…
Inutile gridare. Nessuno lo poteva sentire. Il rumore di un vento ancestrale che puzzava di zolfo, di sangue, di legno marcito e roso dalle larve… di cassa da morto dimenticata nella fossa.
Ancora una volta ci provò MARINO; ancora una volta, con tutto se stesso, si concentrò per non perdere il contatto con la realtà, col quotidiano… con la vita!
Ma quale vita?
Ok… niente vita, d’accordo. Non c’era più vita per lui: andava bene così!
Non ricordava niente, in realtà da quel giorno.
Illusione.
Tutto era illusorio: nessuna vita aveva riempito quei dieci anni. Non ricordava niente! Ecco perché non ricordava niente.
E via.
Va bene! L’aveva fatta finita. Lo accettava… ma adesso basta.
Si era inventato la gioia; si era convinto della felicità. Invece niente: migliaia e migliaia di giorni pieni di niente! Vuoto.
E sia. Illuso di amare, mentre, in realtà, il suo corpo diventava qualcosa di schifoso. Nel freddo della terra bagnata, nella putrescenza: ecco questo era il suo vero ricordo di quei maledetti anni passati in una tomba.
Cibo per vermi… per larve di mosche e di scarafaggi. Non fa niente: non fa niente: forse sarebbe stato meglio l’inferno… oppure il nulla, ma non fa niente!
Le bambine. Le ragazze. Ecco l’unica cosa importante.
- Satana, o chi cazzo sei. Fottiti… fa come ti pare, ma le bambine, le ragazze… quelle no! Porco di un diavolo, chiunque tu sia! – parlava all’antro oscuro senza portone, seguendo la gatta che era sparita nel buio dell’interno.
– Le ragazze sono felici. Oggi si sposano… oggi fanno festa. Senza di me? Non importa… l’importante è la loro vita. Loro felici, ecco cosa importa. Giorni felici, esperienze, vita che pulsa… scoperte, gioie… tutto il nuovo e il bello della vita, giorno dopo giorno. Che importa di me? Torturami quanto vuoi, carogna… tu e quella sporca gatta selvaggia e crudele.
Ormai vaneggiava per la sofferenza. Strisciando i piedi avanzava nella chiesa; non avrebbe voluto ma ormai sapeva di essere finito in trappola.
Strillare, vaneggiare, corrompere se stesso e Satana dell’inferno. Imbrogliare la mente; sperare di essere impazzito; sperare di essere condannato… pregare, per finire dritto tra le fauci del Diavolo. Niente poteva più salvarlo! Nessuno avrebbe mai avuto clemenza.
E lui doveva vedere… ancora una volta… ancora una volta!

9

La gatta crudele era appollaiata sull’altare, come non avesse niente di meglio da fare. Poco interessata eppure feroce; sembrava aspettare che lui subisse la sua condanna, ma senza goderne.
Non aveva più il coraggio, né la forza di offenderla… lei era viva, sì, ma inserita per sempre nel suo inferno.
Responsabilità.
Nessuno ne aveva tranne lui!
Nessuno ne aveva quanta lui!
Lui, responsabile di tutto quel marcescente universo; lui aveva corrotto i corpi, dannato le anime, maledetto le figlie, per l’eternità!
Lui, che aveva creduto di essere un Dio, e invece non era nemmeno un verme di terra. Credeva di aver dato loro la vita, e credeva suo diritto potergliela strappare.
E adesso… adesso lo aspettavano, ai piedi dell’altare dove la gatta-madre, nonostante non potesse fare più niente per loro, ancora le vegliava, ancora le difendeva da lui con una valanga infinita di odio viscerale.
Senza perdono… non poteva morire di dolore, era già morto… 
Sulla scalea dell’altare sconsacrato, negli abiti nuziali ormai lerci e sbrindellati, di troppe taglie più grandi, accoglievano i corpi agonizzanti, per sempre, delle due bambine.
Viola, con l’unico occhio che ancora vedeva lo fissava senza domande, era ancora vigile. Il colpo che le aveva fracassato il lobo temporale, l’aveva accecata e resa immobile, ma non l’aveva uccisa.
Quello sguardo infinito e indagatore pesava sull’uomo come un altro macigno sulle spalle della sua responsabilità. Lei: vedeva!
E lui si vergognava, oltre a soffrire come una bestia ferita. Si vergognava: si rivedeva recitare la sua pantomima da burattino senza palle; ripeteva le scene, i dialoghi da idioti, l’incapacità di stare di fronte al suo disastro.
Rosa era agonizzante, ma non lo guardava… di lì a poco si sarebbe spenta, man mano che i sangue nero usciva dal collo e macchiava i capelli d’oro, crespi, ancora scompigliati dall’innocente agitarsi del sonno notturno.
Viola invece lo guardava e, pur senza volerlo, lo mortificava. Lui si malediva sotto la pressione di quell’unico occhio azzurro che stava perdendo di vita. Troppo vigliacco per finirla.
Le due bambine erano ancora belle nonostante, l’agonia ne contraesse i lineamenti, il sangue e i frammenti di materia macchiassero le carni bianche come la cera. I cuoricini spezzati che ancora, fievolmente, provavano a pompare il sangue: avevano sete, erano piccole, avevano sete di vita; avevano sete di fare… ma giacevano.
“Moriranno per sempre di sete!” pensò MARINO, martoriandosi.
La Cattedrale oscura adesso era piena zeppa di ombre, un consesso di giudici inatteso che lo fissava, lo denudava, lo malediva.
Marino si sentiva come un insetto schiacciato da un dito gigantesco, che non lo schiacciava al punto di ucciderlo ma lo martoriava, rotolandolo e spaccandolo sul freddo del marmo.
Tanti occhi, adesso, fissi su di lui, vuoti e sconvolti, sembravano lanciare nell’etere una sola, infinta, domanda:
- Perché?
- Odiatemi! – gridò il padre con quanto fiato aveva – Odiatemi, vi prego… odiatemi!
Ma l’unico sentimento che gli perveniva dal consesso, dalle bambine, dalla madre era il disgusto; un disgusto totale, eterno. Gli rimproveravano di esistere, di essere venuto al mondo, di essere inutile e malvagio al tempo stesso.
Ma non era tanto quello a farlo soffrire oltre ogni immaginazione, il vero male insanabile era la riscoperta, ogni maledetto giorno, del disgusto che lui stesso aveva per sé.
La pioggia scrosciava e il vento ululava lugubre in quella infinita, straziante, penombra.
L’uomo adesso si ritrovava esausto, cadavere fuori, morto al perdono dentro. Indegno di abbracciare le figlie, seppure giacessero senza vita a pochi centimetri dalla sua mano.
Brandelli di pelle si staccavano dalle sue braccia, mentre gli abiti putridi, intrisi di umori di un giallo crudele e di sangue raggrumato, gli penzolavano dalle membra, ormai scheletriche.
Non le avrebbe mai toccate… mai più per l’eternità, lo sapeva.
Adesso tutti i ricordi erano vividi, nonostante il suo cervello diventasse polvere; ancora vedeva, nonostante i suoi occhi si fossero disciolti come vapore acqueo, nel sacello.
Nonostante fosse ridotto quasi a pezzi, incartapecorito, spingendo le dita raccattò qualcosa, non era la mano di sua figlia, ovviamente: era un oggetto metallico, pesante, ancora lucido, come tanto tempo fa.
Riconobbe al tatto la sua pistola!
Tanto ma tanto tempo prima un essere oscuro gli aveva parlato; fu la prima e l’ultima volta, poi niente, più niente per l’eternità!
- Cosa ho fatto? Cosa ho fatto? – aveva gridato lui al grande Nulla, - Mandatemi all’Inferno… mandatemi nel fuoco: io ho la responsabilità… mandatemi all’Inferno.
- Non temere, ognuno ha il suo…
e questo è il tuo! – disse la voce oscura, e poi nient’altro.
In preda all’orrore più profondo e senza speranza Marino strinse le dita sul calcio dell’arma, poi cominciò a spararsi in bocca.


Epilogo


Bang! Bang! Bang!

Sembravano colpi di pistola.
Marino si svegliò prima che il cellulare emettesse il ronzio richiesto, all’ora stabilita.
E dire che aveva segnato le 6, sul display ma, ovviamente, non stava nella pelle: era un giorno troppo importante, per tutta la famiglia e, in particolare, per lui.
E il suo inferno riaprì i battenti anche quel giorno.